lunedì 30 gennaio 2012

The fix-it man

Ieri mattina, una domenica come tante, mio marito si è dedicato ad alcune riparazioni casalinghe.

Mentre stava cambiando il portalampada sotto un pensile della cucina, costretto in una posizione scomodissima, ho pensato di fotografarlo.
Era divertente, tutto piegato mentre imprecava cercando di non farsi venire il colpo della strega.

Ho pubblicato la foto sul sito di Casa Facile, così tanto per condividere una situazione domestica, mentre altre fan pubblicavano foto di paesaggi innevati fuori la loro finestra o di muffin appena sfornati.

E’ stato un delirio di “mi piace” e di simpatici commenti e complimenti. 

In effetti io sono la prima ammiratrice del talento da riparatore di mio marito. 

Mi allargo: per me è una cosa estremamente piacevole guardarlo mentre smonta, costruisce pezzi mancanti, collega fili, incolla, pittura e riporta allo splendore originale praticamente tutto quello che tocca.

Ha il dono di capire “come funziona” qualsiasi cosa.
Solo in casi estremi cerca i libretti delle istruzioni.
Uno dei primi ricordi bellissimi che ho della nostra storia è quello di quando l’ho guardato smontare e aggiustare un ferro da stiro. Che scema, eh!? 
Eppure le sue mani che si muovevano tra i pezzi sparsi sul tavolo sapendo esattamente dove e come riparare erano molto sensuali…

Col tempo io sono diventata la sua aiutante, in veneto “bocia de botega”, e l’ho assistito in molti lavori anche complessi: tutto l’impianto elettrico della nostra vecchia azienda vinicola, per esempio.

Da lui ho imparato il nome di attrezzi di cui non sospettavo nemmeno l’esistenza.
Il significato di ogni colore dei fili elettrici.
Vernici, smalti e stucchi, diluenti, colle bi-componenti, chiavi a pappagallo, pinze dai becchi lunghi e cordelle metriche.

Mi ha fatto vedere come restaurare un mobile, partendo dall’antitarlo, ai vari passaggi di carta vetrata, al ripristino dell’impiallacciatura e alla verniciatura con gommalacca.

Il bello è che nessuno di questi è il suo vero lavoro.
Nel suo vero lavoro deve usare solo le parole: convincere, rispondere, spiegare, proporre, blandire, sgridare, suggerire….

Ma nel suo tempo libero può star zitto anche per ore: solo musica in sottofondo, i suoi mille attrezzi e qualcosa da riparare.
.
.
.

venerdì 27 gennaio 2012

Sentirsi utili...

Sono appena tornata dalla passeggiata con Tabù, con sosta per pagare una serie infinita di bollettini (canone, assicurazione casalinghe, raccolta del verde, bollo auto…) e sono stata interpellata per la consueta consulenza stradale.
Infatti io quando porto a spasso il cane vengo fermata in media almeno 4 volte, per dare indicazioni ad automobilisti smarriti.

Io non sono originaria del paese dove abito, ma, visto che già dai tempi della scuola odio fare scena muta, mi sono perfino studiata lo stradario per essere sempre preparata.

Le richieste sono le più disparate: dalle vie della zona a quelle dei paesi vicini (molti non sanno nemmeno in che paese sono), dai ristoranti ai campi sportivi, dal centro tennis/calcetto al più vicino ingresso all’autostrada e così via.

Ci sono camionisti stranieri che si impiantano in mezzo la strada e tra il frastuono dei clacson di chi li segue mi chiedono nomi di ditte incomprensibili, turisti completamente fuori strada che cercano il Lago di Garda, mamme che cercano case dove è in corso qualche festa di compleanno.

Sono molto efficiente, sono meglio di un navigatore, la mia voce ha la giusta intonazione - forse una lieve cadenza veneta - mi trovate per strada due o tre volte al giorno: sono quella alta trascinata da un cocker nero: non chiamatemi TomTom ma Guà Guà.
.
.
.

giovedì 26 gennaio 2012

Quando basta un bel film

Ecco, ieri sera avevo proprio bisogno di un bel film che mi rasserenasse dopo una giornata piuttosto tesa.
Questa storia del doppio terremoto mi aveva mandato un po' in paranoia, tipo tenere le scarpe tutto il giorno per essere pronta a scappare...

Zapping nervoso, tra 16 and pregnant e Say yes to the dress, con punte di Isola dei Famosi e 13 apostolo. Quando ecco Iris che mi viene in aiuto: Qualcosa è cambiato, con Jack Nicholson, Helen Hunt e Greg Kinnear.
Quello che si può definire un gran film, dove interpreti e sceneggiatura sono fatti l'uno per l'altro.

Si ride, ci si commuove, si pensa al significato dell'amore, dell'amicizia, della solidarietà.
Poi c'è il valore aggiunto. Quale? Il cane.
In questo film recita un cane (in realtà sono più di uno che si dividono la parte) di nome Verdell.
Siccome lo adoro, mi sono informata su quale sia la sua razza: Griffoncino di Bruxelles.
E' un botolino meraviglioso, tipo barboncino - terrier, marrone con la barbetta nera.
Tanto di cappello agli istruttori. Ha una mimica pazzesca e poi si muove sulla scena come un attore consumato.  Imita Nicholson nelle sue manie, saltella come lui, si blocca, si nasconde.
E' un mito.

Alla fine della serata, quando finalmente e faticosamente il nostro protagonista si lascia andare all'amore per la sua cameriera preferita, mi sono ritrovata con il solito sorrisino ebete che riservo a queste storie e mi sono tolta finalmente le scarpe, pronta a dormire beata alla faccia dello sciame sismico.
.
.
.

mercoledì 25 gennaio 2012

Terremoto!

Allora non ho sognato!
Questa notte all'una c'è stato il terremoto.

Mi sono svegliata di soprassalto sentendo un rombo sordo e i letto che si muoveva.
Ma il mio stupido cocker ronfava beato, come mia figlia.
Ho aspettato di sentire squillare il telefono, ma evidentemente anche mio marito a Milano se la dormiva della grossa...

Alla fine mi ero convinta di aver frainteso, ma le notizie stamattina hanno confermato una scossa 4.2 con epicentro in Valpolicella, cioè a pochi chilometri da casa mia.

Pare che non ci siano grossi danni, ma a me la paura resta per giorni.

C'è un motivo: il 6 maggio del 1976 io c'ero e a Verona la scossa si è sentita più che bene.
Ricordo ancora la fuga giù per le scale e la notte passata in automobile.
Il tremito intermittente alle mani e le notizie frammentarie dal Friuli, dove mio padre aveva molti parenti.

Il giorno dopo è partito per andare a vedere di persona cosa era successo ai suoi zii ed ai suoi cugini.
Le loro case erano gravemente lesionate ma per fortuna nessuno era ferito.
Ho ancora le foto che ha scattato.  Polvere, calcinacci, case apparentemente intere ma completamente disassate, case crollate a metà con pareti con i quadri appesi ma senza pavimento...

Avevamo la nostra roulotte che abbiamo portato in un camping sul Lago di Garda e lì abbiamo passato le notti fino a giugno, quando siamo partiti per le vacanze.
Era l'unico modo per dormire, perchè a casa non potevamo prendere sonno.

In quella disgrazia tremenda io ho avuto due grandi fortune: la prima è che l'unico edificio lesionato di Verona è stata la mia scuola, quindi dopo una serie di frettolose interrogazioni e compiti in classe, al 22 di maggio ci hanno mandato tutti in vacanza.
L'altra fortuna è stata che in settembre, quando c'è stata la seconda rovinosa scossa, io ero a Monaco di Baviera, per uno scambio culturale studentesco, risparmiandomi così altre notti piene di panico.

Rovescio della medaglia: ho dovuto proseguire le superiori in un altro edificio, dall'altra parte della città.
Così, mentre prima facevo una passeggiata di 10 minuti, dopo ho dovuto aggregarmi alle migliaia di studenti pendolari, con sveglia all'alba e due bus da cambiare.
Ma in confronto a molti studenti friulani, mi è andata benissimo...
..

martedì 24 gennaio 2012

Noi e Einstein

“Non possiamo pretendere che le cose cambino, se continuiamo a fare le stesse cose.

La crisi è la più grande benedizione per le persone e le nazioni, perché la crisi porta progressi.
La creatività nasce dall’angoscia come il giorno nasce dalla notte oscura.
E’ nella crisi che sorge l’inventiva, le scoperte e le grandi strategie.
Chi supera la crisi supera sé stesso senza essere “superato”.
Chi attribuisce alla crisi i suoi fallimenti e difficoltà, violenta il suo stesso talento e dà più valore ai problemi che alle soluzioni.”

(Albert Einstein – 1930)

Ieri ho condiviso su Facebook queste belle frasi, guadagnandomi il soliti “mi piace”.

Le ho rilette molte volte, annuendo e pensando che c’è del vero sicuramente. 
Mi sono detta che devo essere ottimista e fattiva.

Poi però mi sono illuminata: la maggioranza di noi ha in comune con Albert Einstein solo il fatto di essere umano.

E sono di nuovo sprofondata nello sconforto.
.

lunedì 23 gennaio 2012

Questione di look

Questa mattina, dovendo fare delle commissioni in centro, abbiamo accompagnato nostra figlia a scuola in macchina.

Il suo liceo si trova in una zona ad alta densità scolastica: ci sono un paio di istituti tecnici, un ex istituto magistrale, due scuole private dall’asilo alle superiori.

Centinaia di ragazzi sciamavano intorno a noi e, vista la velocità a passo d’uomo, ho avuto modo di osservarli attentamente.

Una nuvola nera.
Forse qualche punta di grigio antracite e ovviamente il blu dei jeans, ma la dominante era il total black, dai berretti di lana alle sciarpe, dai giacconi di panno ai piumini, dai pantaloni ai leggins, dalle All Stars agli stivali.

Una gioventù in gramaglie. 
Mia figlia in questa tendenza sguazza felice da anni.
Per lei non esistono fantasie, aborrisce il provenzale e i quadretti vichy, i colori pastello ma anche i colori solari.
Azzarda ogni tanto un tocco di rosso, magari scozzese, perché fa punk. Ma è un colpo di vita che riserva a giorni speciali…

I capelli sono appiccicati alla testa stile Morticia Addams, rigorosamente piastrati. I monili solo color acciaio, spesso brunito.
Le unghie nere, o viola, o blu notte. 
L’abbronzatura una disgrazia da evitare con ogni mezzo, dalle creme protezione 70 alla ricerca dell’ombra in ogni situazione.

Viene spontaneo pensare che questo look funereo rispecchi la crisi attuale.
Che non ci sia voglia di colore se le prospettive sono nere.
Chissà.

Io ero ragazzina negli anni di piombo. Non è che fosse precisamente un periodo “solare”.

Eppure mi ricordo come ci vestivamo. Il colore più dark era il verdone degli eskimo.
Per il resto era un trionfo di colori psichedelici, di fantasie indiane, di ricami, di pullover con i rombi, di maglioni peruviani, di pantaloni a zampa con soffietti fantasia ai lati o strisce di colore diverso sul fondo.

I capelli erano sempre gonfi. Chi li aveva dritti doveva per forza fare la permanente.
Mi ricordo braccialetti di perline colorate e orecchini a pastiglia, spillette dipinte, girocollo rigidi con pendenti luccicanti.
D’inverno grande uso di fard e d’estate ogni occasione era buona per abbronzarsi.

Ci radunavamo in gruppetti, seduti sui Ciao multicolore, mangiando i panzerotti di Povia o il gelato di Pampanin. 

Adesso li vedi sfrecciare con il casco integrale nero su scooter neri, verso la loro cameretta dove li aspetta un computer nero e una merenda in solitaria.

Forse fanno bene a vestirsi a lutto…
.
.
.

giovedì 19 gennaio 2012

La prova d'amore

Oggi ho avuto l’ennesima conferma di essere decisamente un dinosauro. 
Inutilmente ho tentato di stare al passo, di tenermi aggiornata, di barcamenarmi tra nuove tecnologie e moderni punti di vista.
Credevo  che bastasse saper usare il computer o mandare sms pieni di k, guardare MTV, ascoltare musica rap…

Ma questa mattina, guidando nella tundra ghiacciata della bassa veronese, ho sentito alla radio un dibattito su che cos’è la “prova d’amore” al giorno d’oggi e mi sono resa conto di vivere ancora nella preistoria.

Dunque la prova d’amore per me era quell’orrendo ricatto che maschi privi di scrupoli un tempo chiedevano alle ragazze. Aveva molto a che vedere col sesso…

Ho scoperto invece che questo problema è decisamente superato (e già un brivido mi percorre la schiena pensando a mia figlia quindicenne…) o forse meno pressante (ma dai?), mentre quello che le coppie si chiedono a vicenda,  quello che da’ la misura della sincerità del sentimento e della serietà delle intenzioni è la PASSWORD.

Sì, la magica sequenza alfanumerica che apre le porte del tuo cellulare, della tua pagina Facebook, di qualsiasi cosa da essa protetta.
Se tu confidi la password al tuo partner dai la prova che lo ami veramente. 

Come si dice: stavamo meglio quando stavamo peggio. 

Mi sembra che questo dia la misura di quanto insicura sia la maggior parte dei giovani. 

Se in una coppia uno non ha fiducia nell’altro e non tollera che ci siano zone che non può esplorare, se non ammette che ognuno ha diritto ad avere qualche piccolo segreto o mistero, che rapporto è?

Pretendere la password vuol dire per me essere spioni e sospettosi.
Costringere l’altro ad eventuali sotterfugi o spiegazioni delle quali non ci sarebbe stato bisogno.

Altro discorso è se, come nel mio caso, le password in famiglia sono di dominio pubblico. 
Nessuno di noi pensava che avessero così importanza. Sono solo una gran seccatura.
Qualcosa da dover ricordare, da dover digitare quando si ha fretta, da dover cambiare per niente…

Tutti le conosciamo, ma nessuno le usa per spiare gli altri.
E’ una questione che non si è mai posta.

Le prove d’amore per noi sono altre, più antiquate magari.
Hanno a che vedere con qualche rinuncia, con qualche sacrificio, con la vicinanza nei momenti difficili, con la condivisione delle fatiche. 

Come siamo démodé…
.
.

mercoledì 18 gennaio 2012

La nave dei folli

In questi giorni sto ascoltando, come tutti credo, i vari resoconti del naufragio della Costa Concordia.

Non è un disaster movie come le immagini potrebbero suggerire, ma è la triste realtà.
Si fa fatica ad accettarla. Siamo così arroganti.

Pensiamo di costruire navi inaffondabili, grattacieli indistruttibili, centrali nucleari sicurissime e invece veniamo puntualmente smentiti.

Qui si somma l’arroganza con l’imprudenza uniti ad una bella dose di vigliaccheria.

E’ una storia che si ripete tristemente a partire dal guidatore di Suv che investe qualcuno e scappa, al direttore di un’azienda che lascia sul lastrico tutti gli azionisti, alla finanziaria che fa saltare tutti i mutui e si potrebbe andare avanti.

Posti di responsabilità affidati ad incompetenti.
Persone apparentemente in gamba finchè tutto va bene.
Eleganti, piacione.
Persone a cui manca non dico l’onore, cosa ormai sconosciuta ai più, ma anche il più semplice buon senso.

Come siamo malmessi. E’ così demoralizzante constatare questa realtà. 

Ci sono atti di eroismo, uomini che si sacrificano per salvare gli altri, ma chi se li ricorda?
Il fratello di mia nonna si è tuffato nell’Adige per salvare un bambino caduto. L’ha fatto ed è morto. Gli hanno dato una medaglia al valore civile e chi s'è visto s'è visto.

A questi individui che provocano la morte o lasciano sul lastrico migliaia di persone cosa succede?
Le pene sono esemplari? Sono di esempio e monito per gli altri?
Non mi pare proprio.
.
.
.

lunedì 16 gennaio 2012

La mia bella città

Oggi post turistico-gastronomico…

Ho già scritto di quanto ami passeggiare per il centro di Verona con mio marito.
Noi due soli, a braccetto, scattando foto come i turisti.

Cerchiamo in realtà di non seguire le orme delle comitive che imperversano in ogni stagione, ma di percorrere strade alternative e meno frequentate.

Ci sono molti angolini romantici e pittoreschi come Corte Sgarzarie, dove nel medioevo si trovava il mercato della lana o piazzetta Tirabosco con il vicino Pozzo dell’Amore.

Si possono affrontare le scale tortuose che salgono a Castel San Pietro oppure via Sottoriva e tutta la serie di stradine che portano alle Arche Scaligere, le tombe degli antichi signori della città.

Vicino c’è la casa di Romeo, sì proprio lui, che da qui raggiungeva in pochi minuti la casa di Giulietta, attraversando un orto botanico che ora non c’è più.

La casa di Romeo è un piccolo palazzo merlato che appartiene a un fortunato mortale che non lo fa visitare a nessuno…però c’è un trucco.

Sulla destra del portone di ingresso c’è un’antica trattoria tipica.
Qui si possono gustare i piatti storici di Verona e, salendo per scale tortuose e arrivando in salette con bassi soffitti a travoni ci si può affacciare da una finestra e vedere tutta la corte interna della casa di Romeo.

Si mangia bene e quindi vale doppiamente la pena.
Cosa si mangia? Bigoli con la sardela, polenta e baccalà, pasta e fagioli e lei, la mitica Pastisada de caval.

Lo so, molti storcono il naso pensando ai poveri cavalli.
Infatti una volta, proprio in questa trattoria abbiamo assistito ad una scena particolare: un gruppo di inglesi si era faticosamente sistemato nei piccoli tavolini vicino a noi e tutti felici stavano ammirando la particolarità del luogo e discutendo su cosa ordinare.

Uno di loro è riuscito a tradurre il menù e nel giro di pochi secondi si sono disincastrati dalle loro seggioline e se ne sono andati disgustati lasciando la cameriera a bocca aperta.
Le abbiamo spiegato che per gli inglesi mangiare la carne di cavallo è una bestemmia.
Anche se avrebbero potuto ordinare altro si vede che l’orrore gli ha impedito di restare…

Spezzerò una lancia a favore di questa tradizione veronese che ha antichissime origini: pare che intorno al ‘500 l’allora re d’Italia Odoacre abbia combattuto una tremenda battaglia con il re ostrogoto Teodorico, lasciando sul campo migliaia di cavalli morti.
La popolazione affamata trovò il modo di conservare tutta la carne a disposizione facendola marinare per giorni nel vino speziato e cucinandola successivamente per molte ore in uno stracotto che si scioglie in bocca.

Anch’io non sono proprio entusiasta di mangiarlo, perché amo molto i cavalli, così ho optato per polenta e seppie, ugualmente appetitosi.

Per digerire e “smaltire” abbiamo passeggiato ancora verso Piazza Isolo dove avevamo parcheggiato.

Perché si chiama Isolo? Perché una volta l’Adige qui aveva un ramo secondario e formava un’isola, dove c’era una dogana e molti depositi di legname e segherie.
Nel 1882, a seguito di una terribile alluvione furono costruiti gli argini e il ramo secondario divenne Via Interrato Acqua Morta.

Adesso c’è un grande parcheggio sotterraneo con grossi problemi di umidità… chissà come mai?
.
.
#verona #turismoverona #tradizioniverona

sabato 14 gennaio 2012

Il disegno della vita

Ci ho pensato un po’ prima di scrivere questo post…  ma in fondo come ho detto questo blog serve principalmente a me, come piccola valvola di sfogo. 

Questa settimana è morta una mia vecchia zia.
Non è stato inaspettato ne’ in fondo ingiusto: aveva 82 anni, era malata, aveva avuto una vita piena.  Ma io sono sprofondata in una specie di gorgo di avvilimento e desolazione da cui faccio fatica a uscire.

E’ che a questo punto della mia vita sono più i funerali a cui partecipo che i matrimoni.
Il reparto dell’ospedale che visito più spesso non è maternità, ma geriatria…

Tutte le persone che mi hanno accompagnato nella crescita, sia quelle direttamente conosciute che i personaggi famosi sono decrepite o già andate.

E’ la vita, si dirà.  Ma è dura.

Guardavo mia figlia al funerale e tutti i figli dei miei cugini.
Così giovani, carini, con gli occhi lucidi ma belli.

Una volta anche noi eravamo così, io e i miei cugini che le mie amiche mi invidiavano, perché erano “fighi”…
Il campione di karate, il responsabile del negozio alla moda. 

Siamo cresciuti, abbiamo delle belle famiglie, ma adesso è il turno di qualcun altro. 

Sono stata assalita dai ricordi, anche perché la chiesa dove si è svolta la cerimonia è Santo Stefano, quella della mia infanzia, dove ho fatto la Comunione e la Cresima.

Lì c’erano le suore Canossiane dove andavo a catechismo.
Lì c’era la canonica dove andavamo a chiamare Don Carlo, il curato, per giocare a palla.
Lì andavo alla messa la domenica alle 10 per spiare qualche ragazzino e poi ridacchiare fino all’ora di pranzo.

Ho rivissuto tutte le sere di maggio in cui si doveva andare a dire il rosario per ottenere una stellina su una tessera che ti faceva guadagnare un premio alla fine.
E la scatola di cartone in cui infilare i bigliettini con su scritti i fioretti che avevamo fatto.
Gli avanzi delle candele con cui pasticciavamo certi pomeriggi estivi, quando c’era fresco solo in chiesa.
E la scalinata per arrivare all’altare, dove avevo il terrore di inciampare, una volta che ho fatto la testimone al matrimonio di un amico. 

Mi sono ricordata anche quando era morto l’arciprete ed è stato esposto per un giorno.
La prima volta che vedevo un cadavere. 

Ma ero una ragazzina, mi è bastato uscire dalla chiesa per tornare a sorridere e a sognare.
Quella era solo un'ombra scura in una vita luminosa e tutta da disegnare.

Adesso il disegno è quasi finito, c’è qualche cancellatura, ma in definitiva è riuscito bene.
Ecco, forse ci vorrebbe un tocco di colore in più in questo momento, giusto per dare un po’ di luce.
Bisognerà lavorarci.
.
.
.

giovedì 12 gennaio 2012

Condivido quindi esisto

Leggevo in questi giorni un articolo che parlava di come è cambiata la nostra percezione della realtà da quando si può “condividerla”.

Si parte da lontano.

Da quando è stata inventata la fotografia, quindi circa 150 anni fa.

Questo  è stato il primo passo. 
Senza arrivare all’estremizzazione che una cosa non esiste se non puoi fotografarla, è innegabile che poter documentare quello che si vede cambia spesso tutta la prospettiva ed il valore di ciò che stiamo vivendo.

Infatti, soprattutto chi è abituato a fotografare spesso, guarda il mondo “per inquadratura”. 
Questa cosa ha dei bei colori, questo paesaggio ha la luce giusta, quel tramonto sarebbe perfetto con qualche nuvola in più…

Fino a pochi anni fa ci limitavamo a questo. 
E già bastava a rovinare una vacanza dimenticare la macchina fotografica oppure perdere i rullini. 

Ricordo ancora il cupo dramma che si è scatenato quando anni fa, arrivati in Alto Adige per visitare tutti i mercatini di Natale, mio marito si è accorto di aver scordato la sua Canon…
Io continuavo a prenderlo in giro mostrandogli le migliori inquadrature, ma ancora oggi se ne parla con rammarico: “ah, se avessi avuto la macchina fotografica!”, come se non fossero state comunque giornate meravigliose.

Oggi siamo al passo successivo, e che passo.  
C’è la foto in tempo reale, corredata da descrizione e commenti.

Si vede qualcosa, si incontra qualcuno, una torta riesce bene, il cane sta dormendo in una posizione ridicola… ecco che bisogna condividere  e contare i “mi piace” che si ricevono.

Questo accade soprattutto con Twitter, che è Facebook all’ennesima potenza in questo senso.

Molte persone quando sono in procinto di andare da qualche parte si domandano subito se sarà un evento appetibile dal punto di vista della condivisione.
Condivisione che spesso è fatta ad uso e consumo di perfetti estranei. 

C’è una specie di sdoppiamento di noi stessi che viviamo e di noi stessi visti vivere da altri.

Spesso la seconda cosa diventa più importante della prima.

Perdiamo in spontaneità. Perdiamo in sincerità. Perdiamo sicuramente in intimità.

Ci siamo cascati dentro tutti, io per prima con la mia pagina Facebook ed il mio blog.
Twitter non lo uso ancora perché ho un cellulare antidiluviano, ma dammi tempo.

Indietro non si torna, però invito ad una certa cautela: godiamoci la vita in prima persona.
Il nostro “mi piace” e quello di chi ci vuole bene veramente sono i più importanti.
.
.
.

sabato 7 gennaio 2012

Della progressiva scomparsa del rapporto umano...

Mi riallaccio al commento di Sab al post precedente. 

Condivideva con me la preoccupazione di fronte al continuo sparire del “contributo umano” a favore dei servizi forniti dal PC, alla disumanizzazione di tutta una serie di attività che fino a non molto tempo fa si svolgevano attraverso i rapporti interpersonali, lo scambio di informazioni e, perché no, di convenevoli e così via.

In alcune mail che ci eravamo scambiate mi aveva raccontato di quanto le pesasse il suo lavoro d’ufficio, così alienante e monotono.
La povertà di scambi di vedute, il vuoto che la circonda per più di otto ore al giorno.  

Mi diceva che l’ideale le sembrava poter lavorare in una libreria. 
Parlare con la gente, consigliare ed essere consigliati, raccontare e ascoltare.

E’ nel mio cuore un bel film: “C’è posta per te”, dove la mia beneamata Meg Ryan gestisce una piccola libreria per ragazzi e si scontra con l’arrivo di un megastore tipo Barnes&Noble che la costringe a chiudere.

Probabilmente sia io che Sab consideriamo quel tipo specifico di piccola libreria quella ideale. 

Un posto dove andare non solo per comprare un libro, ma per trovare quasi degli amici.
Persone preparate che amano il proprio lavoro e che ci possono dare un buon consiglio. 
Persone che ci chiamano per nome e conoscono i nostri gusti.   
Un luogo dove fermarsi a fare due chiacchiere anche senza prendere nulla. 

Bei ricordi e purtroppo utopie.
Già nel film, che ha un bel po’ di anni, il piccolo negozio soccombeva ed oggi anche i megastore devono affiancare ai libri mille altri oggetti, dai cd ai giochi per PC, dagli accessori ai dvd per poter andare avanti.

Ma il problema più grande sono proprio i commessi.   
Quelli su cui ho già scritto un post avvelenato (Commessi scazzati).
La mancanza di preparazione, di interesse al cliente, di buona educazione è così fastidiosa che uno preferisce il self service e amen.

Stanno ingobbiti davanti ad un computer (tanto per cambiare) e l’unico supporto che ti danno è la ricerca su un database del libro che stai cercando. Casomai lo ordinano. 
Ti chiedono lo spelling perché non sanno un acca ne’ di autori ne’ di titoli. 

Siamo alle solite: mi lamento e rimpiango il passato.  

La padrona della drogheria si chiamava Bianca, il fruttivendolo Guerrino, il lattaio Sandro e il macellaio Gaetano. 
Ti chiedevano come andava a scuola e suggerivano ricette a mia mamma.

Adesso io vado all’Iperfamila. Non conosco nessuno e nessuno mi conosce.
E’ tutto molto comodo e veloce. Spesso compro lì anche i libri.
In questo modo aumentano i punti sulla mia card e a fine anno scelgo il regalo dal catalogo.

Sono piena di queste card: quella di Mediaworld, quella di Auchan, quella di Giunti, quella di Sephora…

Vedi come ci tengono ai loro clienti!? Scrivono pure le mail.  Hai diritto agli sconti.

E’ tutto automatico. Tutto bello asettico.
Che meraviglia!

.
.

giovedì 5 gennaio 2012

Non si uccidono così anche i cavalli?



Rubo il titolo di questo triste e bel film del ’69 per parlare di una delle tante brutte notizie che si ascoltano in questi giorni.

Infatti se è cambiato l’anno, non è certo cambiato quello che ci circonda. 

In primis la crisi economica ma non soltanto quella.

Parliamo di cavalli da corsa e di tutto quel mondo che girava intorno alle varie gare, agli ippodromi e alle scommesse.
Nessuno va più all’ippodromo. 
Le corse sono diminuite e nessuno scommette più sui cavalli. 

Non sono in crisi le scommesse. Anzi.
In tempi di crisi aumentano i tentativi di far fortuna facilmente, ma si scelgono mezzi più comodi. 
Si gioca al computer o in tabaccheria, se proprio si devono fare due passi.

Così tutto quel mondo fatto di personaggi pittoreschi, di allibratori ma anche di gente normale che passava un pomeriggio o una domenica alle corse, non esiste quasi più.

Ci sono non so quante migliaia di cavalli che sono solo un costo. 
Vengono svenduti, molti alla malavita per essere usati nelle corse clandestine senza la minima tutela. Vengono dopati e poi macellati, col rischio (per chi mangia la carne equina) di assumere anabolizzanti senza saperlo.

I più fortunati finiscono nei maneggi o da qualche privato che ha lo spazio e il denaro per mantenerli (circa 800 euro al mese).

Lo so che ci sono problemi più gravi.
Essere umani, e non equini,  che rischiano di morire di fame, ma mi ha fatto veramente pena vedere tutte queste stalle in disarmo, tutti questi carrozzini appoggiati alle pareti, tutto un mondo che sta sparendo.

E c’è ancora una volta l'esempio di come ci siamo impigriti e isolati. 

Scommettiamo, giochiamo a poker, compiliamo schedine davanti al computer. 
Soli in una camera.  Sempre più alienati e distanti. 

Perfino l’immagine di quattro amici in una stanza fumosa che passano la notte a giocare a carte mi sembra migliore di questa realtà virtuale, perfino il ricordo di quando con qualche collega all’uscita dal lavoro ci fermavamo alla sala corse per puntare su una tris mi fa nostalgia.  

La vincita o la perdita si condivideva. Ci si arrabbiava o si gioiva insieme.
E i cavalli avevano dei bellissimi nomi…
.
.

domenica 1 gennaio 2012

Capodanno 2012


Se è vero che qualcosa accaduto il primo dell’anno accade tutto l’anno, non ci siamo.
Di solito questa è la giornata in cui mi sveglio con un fastidioso cerchio alla testa, la bocca impastata, la pancia in subbuglio e l’occhio gonfio.
Con gli anni la situazione, già di per se’ compromessa, non può che peggiorare…
Ecco, io stamattina, fisicamente, vorrei che fosse un’anomalia.

Quanto al resto, la giornata si preannuncia luminosa.
Dalla finestra del bagno dell’albergo (dove ho già fatto un paio di giri più che altro per combattere l’arsura) vedo la gelida spianata delle Regole di Malosco.
C’è un silenzio spettrale, le automobili ghiacciate nel parcheggio, le impronte di qualche animale sulla neve.

Oggi inizia il 2012. Come sarà quest’anno?

I tre desideri che ho espresso ieri sera, quelli scritti nel bigliettino da bruciare con la vecchia, sono stati molto generici.
La mia solita “furbata” per poter ottenere più cose e comprendere tutto.
Speriamo che qualcosa si avveri.

La salute innanzitutto. Per me, la mia famiglia, ma anche in senso lato per il mio paese.
Vorrei iniziare a sentire buone notizie: l’economia che si riprende, la politica che si disintossica. Un’epidemia di laboriosità ed onestà. Una febbre di conoscenza.

Poi la serenità. Quella che ti fa andare avanti senza ansia, che ti da la forza di affrontare tutte le noiose incombenze della vita con leggerezza, quella che ti deriva dalla stabilità dei tuoi rapporti.
Serenità per tutti: per gli arrabbiati cronici, per i polemici, per gli innamorati non corrisposti e per i disillusi.

Soldi. Ebbene sì. Quelli non guastano mai.
Soldi per viaggiare di più, per andare di più al cinema e a teatro. Per soddisfare qualche capriccio…
Ma soprattutto soldi per molte persone che conosco, che ne hanno veramente bisogno.
Per rendere più decorosa la loro vita quotidiana e più certo il loro futuro. Per affrontare con tranquillità le loro giornate. Per poter dormire senza incubi.

Auguri, auguri, auguri. Di cuore.
.
.